2017 foi um ano de intensificação dos ataques e das actividades do terrorismo islamista no território do Estado espanhol. Foi também o ano em que ficou patente a extensa dimensão da implantação das redes islamistas no interior do Estado espanhol. A questão é, portanto, que projecto está por trás destas ameaças islamistas? Que querem os terroristas do 'califado'? Que tipo de guerra vão os jihadistas conduzir para alcançar esses seus objectivos? O trabalho do italiano Istituto Treccani, que aqui registamos, procura responder a questões levantadas por este desafio global, lançado pelos islamistas, num imenso território que engloba largas partes da Europa, da África e da Ásia.
La minaccia jihadista tra Africa, Asia ed Europa: una sfida globale
Istituto Giovanni
Treccani | di Marco Lombardi - Atlante Geopolitico Treccani (2016)
Affrontare il tema del terrorismo di matrice islamista nel 2015 significa
necessariamente (pre)occuparsi dello Stato islamico (Is) e della sua penetrazione
in Africa, Asia ed Europa attraverso una attenta strategia di
espansione. Oggi la minaccia jihadista è, infatti,
rappresentata dalla rapida ed efficace diffusione di Is, determinato ad
affermarsi con metodi terroristici quale unico riferimento dell’islamismo
radicale. Due eventi introducono e, di fatto, esplicitano il progetto di
penetrazione dell’Is: il 29 giugno 2015, quando celebra il suo primo
anniversario; il 13 novembre, quando viene attaccata Parigi.
Il primo genetliaco, al di là del momento
celebrativo, è un evento storico perché il califfato proclamato da al-Baghdadi
compie un anno e può contare i suoi successi. Alla sua nascita, pochi giorni
dopo il 29 giugno 2014 chi scrive sosteneva l’opportunità di un attacco
militare contro il nascente stato: allora sarebbe stato ancora possibile,
avrebbe causato grande imbarazzo politico per alcuni, messo nell’occhio del
ciclone chi l’avesse compiuto ma la situazione, allora, permetteva ancora una
manovra militare che sarebbe potuta essere risolutiva. La leadership del califfato
scommise sulla impossibilità di questa azione e vinse la scommessa. Infatti,
oggi, questo tipo di azione è molto più difficile, malgrado il recente
attivismo russo, e il califfato probabilmente festeggerà altri compleanni.
Tanti di più quanto saprà utilizzare, come ha fatto finora, le vulnerabilità
dei suoi nemici: Is non è forte di per sé ma è capace di sfruttare le debolezze
di chi combatte.
Ma il compleanno, come in tutte le grandi
ricorrenze prevede più giorni per la sua celebrazione: venerdì 26 giugno 2015 è
il Venerdì Nero che suggella il primo anniversario, a seguito di un mese di
attività che hanno chiarito – se non bastasse – il progetto strategico e
politico di Is.
Infatti in quel venerdì 26 giugno in Kuwait
si verificò un attentato suicida, rivendicato da Is, nella moschea di al-Imam
al Sadeq durante le preghiere. L’attentato ha così rilanciato la questione
sunniti/sciiti, che oggi divampa sconvolgendo il Medio Oriente e i paesi del
Golfo. Paesi, questi, alleati della coalizione anti-Is, ma anche ricchi di
tante ambiguità sul loro stato di ‘nemici’ del califfato.
Il medesimo giorno, in Francia Is attacca
un impianto di gas industriale nell’Isère, a 30 chilometri da Lione, nella
regione del Rodano-Alpi: inoltre si tratta di un attacco a una infrastruttura
critica che avrebbe potuto, per questo, essere dannosissimo e propone la prima
decapitazione sul suolo europeo. Quest’ultima, sul piano simbolico, è tanto
sconvolgente quanto l’attacco alla satira di Charlie Hebdo (7 gennaio 2015) e
precede, segnale non colto, la strage di Parigi del 13 novembre successivo.
Ancora il 26 di giugno, nel venerdì giorno
sacro dell’islam, nel mese del Ramadan, a pochi giorni dall’invito da parte di
Is a trasformare il mese santo in un tempo di ‘calamità per gli infedeli’, in
Tunisia si ammazza, oltre ai turisti occidentali, un paese che cerca di trovare
una strada diversa da quella che vuole Is. È nuovamente colpito il turismo: un asset strategico per la
Tunisia che, nella profonda crisi economica in cui si troverà dopo questo
secondo colpo, che segue quello al Museo del Bardo (18 marzo 2015), corre il
rischio di sprofondare nelle accoglienti braccia del radicalismo.
Il Venerdì Nero è perfettamente coordinato:
i tre attacchi sono differenti solo per località e descrizione fisica del
bersaglio, ma sono i medesimi in termini di rilevanza di impatto nei confronti
del paese e della popolazione che si doveva colpire. L’effetto ottenuto in
Kuwait, Francia e Tunisia è quello di un corale urlo sotto la bandiera nera:
«Stiamo arrivando…anzi siamo già qui!». La regia strategica c’è ed è perfetta.
Ma il Venerdì Nero è stato preceduto da una
serie di azioni significative, perché ogni azione si è mossa all’interno di un
quadro sistemico ben organizzato di cui il mese precedente il primo compleanno
ne è un esempio.
In quei giorni era in corso la battaglia
per la riconquista di Kobane che ha visto un’azione di guerra ben condotta da
Is e respinta con grande fatica dai curdi. Tutto questo in un contesto militare
in cui il dominio dei cieli è della coalizione anti-Is che tuttavia nulla ha
fatto per impedire l’afflusso verso Kobane dei jihadisti. Come nulla ha fatto
nei mesi precedenti. Pochi giorni prima il mondo era messo a soqquadro per le
esplosioni che hanno distrutto due importanti mausolei nel sito archeologico di
Palmira, protetto dall’Unesco. Il 29 maggio Is pubblicava il primo numero della
nuova rivista Kostantiniyye,
in turco, per conquistare Istanbul e ‘cuori e menti’ dei turchi chiamati a una
nuova santa alleanza contro i comuni nemici. Pochi giorni prima, con un video
si chiamava alla sollevazione il jihad
balcanico: un’area estremamente conflittuale e assai più pericolosa per
possibili attacchi diretti verso l’Italia. Entrambi i casi ripropongono la
guerra guerreggiata sul campo e quella condotta attraverso i media, della quale
il califfato si è mostrato maestro.
In pratica, in occasione del primo
compleanno del califfato, si è assistito a una strategia di penetrazione
globale che si è dinamizzata nel breve arco di un mese: nel mese di Ramadan
2015 Is ha dimostrato di perseguire un disegno strategico di ampio respiro con
una molteplicità e diversità di azioni sui diversi fronti. La regia c’è: non è
la regia che rimanda alla catena di ‘comando e controllo’ a cui eravamo
abituati e il modus
operandi non è più quello delle cellule formate per colpire un
obiettivo specifico con un piano adeguato, a loro fornito dal burattinaio.
Ormai si tratta di una regia che conta su un esercito in crescita,
delocalizzato e diffuso, che dimostra un buon livello organizzativo e militare
di base, dotato di uomini indottrinati a cui è sufficiente l’indirizzo generale
a colpire per declinarlo flessibilmente in termini operativi con una
organizzazione efficace. Prima dell’avvio del Ramadan, Is aveva annunciato che
sarebbe stato un Ramadan di sangue, invitando i suoi a terrorizzare con la
massima violenza i nemici: è stato puntualmente accontentato.
Questi segni forse non erano stati
sufficientemente compresi, tanto da rendere possibile la carneficina di
novembre a Parigi: sette attacchi multipli coordinati, tre commando in azione e
centinaia tra morti e feriti. Ma soprattutto un’Europa attonita e ammutolita,
tardivamente reattiva, malgrado le prime ma frequenti attestazioni di ‘atto di
guerra’ all’attentato, così certificando l’incomprensione del nuovo modello di
guerra ibrida che caratterizza da anni i conflitti. Quest’ultimo attacco
esprime in pieno non solo le modalità operative di Is ma sottolinea le
strategie complessive, la mission
del califfato che è una organizzazione complessa che usa il terrorismo come
strumento della guerra ibrida, piuttosto che un gruppo terrorista – come
tradizionalmente definito – che si pone l’obiettivo di modificare l’ordine
costituito utilizzando il terrore come strumento, colpendo infrastrutture e
popolazione. Lo Stato islamico non vuole semplicemente modificare l’ordine esistente:
il califfato persegue il processo di espansione che lo caratterizza non
attraverso la modifica del sistema e l’assorbimento della popolazione, ma
attraverso l’espulsione di entrambi. Gli obiettivi del califfato vanno ben
oltre a quelli del terrorismo che ha prodotto le definizioni che oggi stiamo
ancora usando e che, pertanto, sono inadeguate. Ma del terrorismo esso usa gli
strumenti, raffinati nella devastante capacità di colpire, in un quadro di
colonizzazione dell’Occidente che non offre possibilità di negoziazione
politica tra le parti: il califfato opera la pulizia etnica e religiosa e
attira nuovi coloni
nelle terre che conquista.
Per molti versi, dunque, il successo di
questo Stato islamico, attore nuovo e innovativo sulla scena geopolitica, capace
e opportunista, sognatore e realista, è massimizzato dalla coalizione di chi lo
combatte. Questa coalizione è frammentata in una pluralità di interessi locali,
nazionali e regionali che poco o nulla hanno in comune con l’Occidente che
sembrerebbe averli promossi: a cominciare dal doppio gioco del Qatar e
dell’Arabia Saudita (che combattono e anche finanziano gli stessi soggetti),
dal sogno imperiale della Turchia (che si espande e minaccia) e dagli accordi
sottobanco a propria tutela della Giordania (che ‘ospita’ per non avere
incidenti). La risposta finora data a Is è stata limitata da questi interessi,
a cui si affiancano quelli americani e internazionali che, schermati dalla
preoccupazione di colpire popolazioni locali, in realtà tutelano l’interesse al
mantenimento operativo dei pozzi petroliferi dell’area, dei quali si deve
tornare in possesso non appena ci si è liberati del califfato.
Insomma, le ragioni particolari per le
quali non intervenire con troppa durezza verso Is sono tante, molteplici e differenti:
da cui la sopravvivenza garantita di quello che sarebbe identificato come il
nostro nemico.
Ma la ragione reale di questo blocco
politico e militare si ritrova, in modo ancora più radicale, in una visione del
mondo superata che qualifica la coalizione anti-Is ma che non appartiene allo
stesso Is, il quale incorpora la novità. Seppure paradossale, questa sembra
essere la situazione a fine 2015.
Il nodo cruciale della visione è proprio
nel Medio Oriente, ormai ridotto a una espressione esclusivamente geografica
senza alcun senso politico rispetto all’immagine che ne avevamo. Il Medio
Oriente che conoscevamo non c’è più e la crisi di Is può solo essere superata
se si elabora una nuova visione geopolitica di quest’area strategica per il
mondo intero. Senza una tale visione condivisa è impensabile sanificare le aree
occupate da Is che resterebbero prive di governance
e, come tali, luogo di conflitto tra i paesi musulmani ‘al contorno’. La novità
degli ultimi mesi dell’anno, dunque, è rappresentata dall’intervento russo e
dal recupero formale dell’Iran, una manovra che sta costringendo a ridefinire
le strategie di tutti i contendenti che, in comune, sembrano solo avere – a
livello dichiarativo – un medesimo nemico: il califfato. I numeri, infatti,
mostrano questa accelerazione e una presenza sul campo di truppe che forse non
è ancora chiara.
Questa premessa, focalizzata sul primo
compleanno dello Stato islamico quale sintesi dei suoi caratteri peculiari,
introduce alcuni punti che la contestualizzano su un piano temporale più ampio.
Il primo punto riguarda la guerra ibrida in
corso, modalità con cui si declina la ‘terza guerra mondiale’. Il presidente
della Repubblica, Sergio Mattarella (19 agosto 2015 - 36° Meeting di Rimini),
dicharava: «Il terrorismo, alimentato anche da fanatiche distorsioni della fede
in Dio, sta cercando di introdurre nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in
Africa, i germi di una terza guerra mondiale». Quasi esattamente un anno prima
(18 agosto 2014), papa Francesco, nel volo di rientro dalla Corea del Sud,
dichiarava: «Siamo entrati nella terza guerra mondiale, solo che si combatte a
pezzetti, a capitoli», denunciando poi l’efferatezza delle guerre non
convenzionali che hanno raggiunto «un livello di crudeltà spaventosa». I due austeri
e pacati personaggi appena citati sembrano comprendere meglio di altri il nuovo
teatro geopolitico caratterizzato dalla guerra ibrida: un pluralità di teatri
di conflitto in cui attori differenti (eserciti convenzionali e terroristi,
criminalità organizzata, Ngo, media, ecc.) mantengono relazioni conflittuali
senza condividere alcun sistema di norme regolative. In parole povere: una
nuova forma di guerra diffusa, pervasiva e delocalizzata, di cui né l’inizio né
la fine sono dichiarati, in cui tutte le armi sono possibilmente impiegate da
compagini con o senza uniforme, della quale il terrorismo è attore importante.
Il secondo punto riguarda il progetto dello Stato islamico: costituirsi e
farsi riconoscere come uno stato, prima dalla comunità globale musulmana, poi
dalla comunità internazionale. È sufficiente notare l’uso sapiente e flessibile
del nome dello Stato islamico: Isi quando alle sue origini si collocava
soprattutto in Iraq (Islamic State of Iraq), Isil o Isis quando si è allargato
alla Siria e al Levante,
incorporando nel nome i riferimenti mitici e simbolici allo Sham (Islamic State
of Iraq and Syria, oppure Sham o ancora Levante), infine Is, semplicemente ed
efficacemente lo Islamic State, quando ogni riferimento geografico è stato
superfluo nella affermazione sovranazionale del califfato. Ma non solo il nome
è mediaticamente interessante per le sue connotazioni geopolitiche, lo è anche
perché è esplicitamente programmatico esplicitando nello ‘stato’ l’obiettivo
degli islamisti. Is fin dalla sua nascita manifesta il suo afflato
istituzionale a costituirsi stato tra stati, unico tra i gruppi jihadisti più
vicini ad al-Qaida anche nelle sua forma organizzativa che prevedeva
l’istituzione di province. Infatti, l’evoluzione dello Stato islamico mostra il
progredire di un’organizzazione criminale che diventa un’entità che controlla
ampie fasce di territorio, tra cui alcune importanti città siriane e irachene,
e che offre una gamma diversificata di servizi burocratici e amministrativi.
Tra questi, per esempio, offre ‘sicurezza e giustizia’ con un sistema d’ordine
nelle zone di conflitto a quelle popolazioni che hanno conosciuto solo il caos
della guerra tra fazioni concorrenti negli ultimi quattro anni. Inoltre, ha
strutturato una sorta di amministrazione statale dotata di un budget (ha dichiarato di
coniare la propria moneta in argento e oro) proveniente da tasse: spese per
andare a scuola, multe per violazioni di traffico, smaltimento dei rifiuti.
Oltre alle entrate originate dal contrabbando del petrolio
e delle antichità, dai rapimenti o dal traffico di persone, armi e droga.
Questa evoluzione statuale di Is in Iraq e Siria è anche un modello per
promuovere lo sviluppo dello Stato islamico in altri paesi, attraverso i suoi
affiliati. Uno sviluppo che presumibilmente passa attraverso una prima fase di
adesione e fedeltà al califfato e un successivo incremento delle azioni
militari per consolidarsi nella applicazione del modello amministrativo.
Dunque guerra ibrida, come contesto
generale, e progetto di istituzionalizzazione, come contesto specifico,
qualificano le strategie di Is dalla sua nascita e, soprattutto, i processi che
lo hanno visto protagonista in questo primo anno di cruciale start up, in cui gli
strumenti prioritari utilizzati sono stati: la penetrazione territoriale,
condotta consolidando la propria presenza nel Levante, e la penetrazione
mediatica, orientata alla propaganda e al reclutamento.
La penetrazione territoriale dell’IS
La strategia di espansione territoriale
dello Stato islamico è stata articolata e mirata fin dal suo inizio. Il
terrorismo è sempre una struttura opportunista, attenta a cogliere i momenti e
i luoghi di instabilità politica e sociale per affermarsi, e Is ha
immediatamente identificato nel vuoto della governance
irachena l’area in cui radicarsi, e nel conflitto siriano il consolidamento
necessario a proporsi come stato, radicandosi in Aleppo, Raqqa, Mosul. A ciò è
seguito l’allargamento verso l’Africa, sconvolta dalla ‘primavera araba’ e dai
conflitti tra Mauritania, Mali, Nigeria, Niger e Corno d’Africa; verso la
penisola arabica, cogliendo l’occasione del conflitto yemenita; verso l’Asia, mirando
soprattutto all’Afghanistan, sfruttando le recenti forti tensioni interne ai
talebani, a seguito della morte del Mullah Omar. Tutte queste aree, altamente
instabili e conflittuali, offrono forti legami alla narrativa tradizionale
islamista e sono diventate immediatamente le potenziali ‘province’ (Wilaya)
dell’organizzazione estesa del Califfato. Tale espansione, nel contesto della
guerra ibrida, è focalizzata a esportare il modello statuale di Is e usa
strumenti che rimandano alla costituzione di alleanze con formazioni jihadiste già
localmente presenti; alla relazione sinergica con la criminalità organizzata,
fonte di guadagno e opportunità logistica; alla attrazione di combattenti e di
famiglie, per popolare le aree di penetrazione. A questi strumenti si affianca
un uso molto efficace del soft
power dato dall’uso capace delle strategie comunicative.
La penetrazione mediatica
Fin dall’inizio Is ha attirato l’attenzione
su di sé anche per le specifiche modalità comunicative messe in atto, in
particolare dalla sua proclamazione a califfato il 29 giugno 2014.
Soprattutto lo stupore ha qualificato
questa attenzione occidentale alla comunicazione degli islamisti: uno stupore
dovuto all’insistenza sulle tecnologie della comunicazione utilizzate dalle major del jihad. Ma la vera novità
di Is è che per la prima volta ci troviamo di fronte a una regia competente
nell’uso dei diversi strumenti mediali, non solo delle tecniche, nel quadro di
una più complessa regia politica e militare di consolidamento dell’islam
radicale all’interno di un territorio.
Nella cosiddetta guerra ibrida, in cui
attori e campi di combattimento sono diventati i più vari, la comunicazione ha
assunto un ruolo centrale, che va ben oltre le tradizionali psychological warfare operations.
Non per nulla, ad aprile 2015, l’esercito britannico ha costituito la prima ed
unica brigata di specialisti per il ‘combattimento in rete’. Si tratta della
Settantasettesima brigata, subito identificata con il nickname di Twitter
Troops, che avrà il compito di contrastare la pervasività dello Stato islamico
soprattutto sui social media: si tratta di un passo importante nelle strategie
militari di contrasto che per la prima volta avviano delle specifiche attività
cinetiche nel mondo virtuale (in questo caso azioni di combattimento non
convenzionale e non letale), con obiettivi espliciti di contrasto.
Come sottolineato, la novità della
comunicazione del califfato si ritrova soprattutto in una strategia complessa e
articolata riconducibile ad alcuni prodotti mediali:
• l’utilizzo massiccio dei social media (Twitter, Facebook, chat e forum,
che promuovono comportamenti virali e imitativi attraverso la narrazione,
spesso, delle imprese al fronte, favorendo il reclutamento soprattutto dei foreign figther;
• video che promuovono la ‘comunicazione
dell’orrore’, quali sono le decapitazioni dei nemici, volti a colpire
emotivamente e profondamente, minacciandolo, il pubblico occidentale e,
contemporaneamente, a sostenere l’azione radicale dei propri affiliati;
• attività di contro narrazione, di cui il
giornalista inglese Cantlie, in mano a Is, è l’autore: così Is entra nelle
argomentazioni dei paesi che lo combattono, fornendo visioni alternative, per
favorire la frammentazione del ‘fronte nemico’;
• veri e propri prodotti informativi (le newsletter dello Stato
islamico, edite anche a livello provinciale) che illustrano i servizi che Is
offre ai suoi ‘cittadini’ nei territori controllati, con lo scopo di attirare
famiglie di jihadisti, i nuovi coloni necessari alla strategia di
istituzionalizzazione;
• riviste, come Dabiq, divulgate in rete in varie lingue
(arabo, inglese, francese, turco, indonesiano, etc.) che si rivolgono ai
simpatizzanti sparsi per il mondo; esse affrontano temi politici e teologici,
ma anche forniscono competenze operative e potenziali bersagli da colpire;
• giochi interattivi, che riecheggiano
conosciuti giochi occidentali (come Grand Theft Auto: Salil al-Sawarim), per
intrappolare col processo della gamification
(apprendere e socializzare giocando) i nativi digitali, i giovani;
• radio e televisione via web,
attualizzando una strategia della convergenza che propone via rete una
fruibilità differente e più attiva dei contenuti divulgati dagli altri mezzi di
comunicazione.
Da questa tipologia emerge chiaramente come
una strategia mediale articolata non sia affatto casuale ma utilizzi competenze
che appartengono al mondo globale della comunicazione diffusa e pervasiva. Non
riconoscerlo, o stupirsi di fronte all’impiego delle tecnologie, mostra il
frequente ritardo culturale e l’etnocentrismo con cui l’Occidente troppo spesso
classifica i suoi avversari, semplicemente perché combattono con ‘le ciabatte’,
producendo così una enorme vulnerabilità. Tra l’altro, si tratta di una
strategia che appartiene non al jihad,
ma al mondo globale della comunicazione, competentemente adottata dal
califfato, certamente avendo reclutato tra i foreign
fighter non solo combattenti capaci di utilizzare un fucile
d’assalto ma anche combattenti che utilizzano computer e telecamera.
È ormai chiaro che l’apparato media di Is è
strutturato e organizzato in un sistema efficace e competente che persegue
delle strategie (per esempio il marchio al-Hayat Media Centre) e che l’uso delle
tecnologie mediali è da anni proprietà del jihad,
così come la guerra mediale è un tema in cui il terrorismo ha investito denari
e competenze da tempo. Il salto di qualità di Is è nella regia articolata dei
diversi prodotti mediali su linee differenti, linee tutte convergenti al
supporto dell’obiettivo generale, l’istituzionalizzazione del califfato, perché
esso venga riconosciuto nella sua forma statuale: in questo percorso sia la
produzione sia l’organizzazione mediale sono due delle componenti, non le sole,
seppure importanti. Ma la progressiva drammatizzazione e l’aumentata frequenza
di nuovi prodotti mediali significativi nel corso del 2015 sembra fare emergere
un secondo obiettivo teso a promuovere forme di radicalizzazione non solo
finalizzate al reclutamento dei cosiddetti foreign fighters, ma anche a promuovere il
conflitto, favorito da atteggiamenti reattivi, nei paesi del mondo occidentale.
In pratica si sta cercando di ottenere un effetto indiretto, agendo sulla
attivazione dei potenziali nemici del califfato identificati nei cittadini
europei, non affidando solo a possibili attacchi diretti di tipo terroristico
l’esplosione della violenza tra islam e Occidente, ma anche alla risposta
reattiva che si cerca di promuovere.
AQIM: origini, evoluzione e
posizione nel nuovo panorama jihadista
di Andrea
Plebani
Al-Qaida nel Maghreb islamico (Aqim)
rappresenta uno degli affiliati più importanti del network qaidista. Seppur non paragonabile
dal punto di vista operativo ad altri nodi regionali, Aqim dispone di
caratteristiche pressoché uniche. Una posizione, questa, dovuta in buona parte
al suo porsi a metà strada tra il movimento jihadista e il cartello criminale.
Aqim affonda le proprie radici all’interno
del ‘decennio nero’ algerino, apertosi con la messa al bando del Fronte
islamico di salvezza nel 1992 e chiusosi alla fine degli anni Novanta con il
massacro di migliaia di civili inermi, il fallimento della guerra totale
proclamata dai Gruppi islamici armati (Gia) e l’ostracismo di buona parte dei mujaheddin, che negli
eccessi perpetrati dai Gia vedevano un danno per l’intero movimento. È in
questo momento che venne fondato nel 1998 il Gruppo salafita per la
predicazione e il combattimento (Gspc) da cui sarebbe poi nata Aqim. Seppur
creato per continuare la lotta armata, il Gspc rinnegava la violenza
indiscriminata adottata dai Gia, prediligendo obiettivi istituzionali ed esponenti
delle forze di sicurezza. Una posizione che, nonostante gli sforzi e le risorse
impiegate, al volgere del nuovo millennio non era riuscita a smarcarlo dai
responsabili dei massacri degli anni Novanta.
A cambiare la situazione contribuirono in
misura determinante gli eventi dell’11 settembre 2001. La campagna scatenata da
al-Qaida (Aq) rappresentava un’opportunità unica per il Gspc di perseguire il jihad armato senza
infliggere nuove sofferenze alla popolazione algerina. In sostanza, si trattava
di sostituire al nemico vicino (il regime di Algeri) il ‘grande satana
americano’. L’unico ostacolo era rappresentato dal discredito che circondava il
movimento all’interno degli ambienti jihadisti. Ed è alla sua rimozione che si
dedicò il nuovo amir,
Abdelmalik Droukdal, in collaborazione con Abu Musab al-Zarqawi, il leader di
al-Qaida in Iraq che nei primi anni Duemila era divenuto l’astro nascente di
Aq.
Ma cosa poteva offrire Aqim ad al-Zarqawi?
Sostegno economico, backing logistico e un bacino di reclutamento secondo
nell’Africa settentrionale al solo contingente libico. Un sostegno, quello
fornito dal Gspc, che – grazie ai buoni uffici di al-Zarqawi – avrebbe permesso
al movimento di ripulire la propria immagine e di essere poi accettato
all’interno della cerchia di bin Laden. Nasceva così nel settembre 2006 Aqim.
L’ingresso in Aq spinse il movimento a dar
vita a una nuova stagione di violenza culminata nel 2007 in oltre 200 attacchi.
Già a partire dal 2008, però, le contromisure adottate da Algeri si tradussero
in un’inversione di tendenza che, unita al collasso del jihad iracheno, spinse
il gruppo a rivedere le proprie posizioni. È nelle aree desertiche di Algeria,
Mauritania, Mali e Niger che Aqim ridefinì la propria linea di azione,
sfruttando i legami instaurati con le comunità locali, la cronica instabilità
di quei territori e, soprattutto, la posizione di rilievo assunta negli anni
all’interno della ‘filiera’ dei traffici illeciti saheliani. Un giro di affari
che si basava essenzialmente su entrate di natura diversa, che univano al
contrabbando di armi, droga, sigarette e carburante il traffico di esseri umani
e i rapimenti ai danni di turisti e personale occidentale.
Questo riposizionamento, necessario per
rispondere alla crisi post-2007, non indicava l’abbandono della lotta jihadista
da parte di Aqim. Al tempo stesso, però, esso evidenziava la debolezza di una
realtà che aspirava al dominio del movimento jihadista sahelo-maghrebino, ma
che non si era rivelata all’altezza dei propri obiettivi. È in questo contesto,
segnato tra l’altro dall’instabilità degli anni 2011 e 2012, che emersero una
serie di attori caratterizzati da un retroterra ideologico non dissimile da
quello qaidista, ma autonomi rispetto ad esso. Paradigmatica fu, in tal senso,
la proclamazione nel 2012 di un ‘emirato islamista’ nel Mali del nord.
Un’impresa importante ma realizzata da Aqim in ‘compartecipazione’ con Ansar
al-Din (formazione a essa vicina ma guidata dal leader tuareg Iyadh Ag-Ghali) e
col Movimento per il tawhid
e il jihad
in Africa orientale (Mujao, nato da una scissione interna al gruppo di
Droukdel). Il collasso dell’emirato maliano nella prima metà del 2013, oltre a
rappresentare l’ennesimo duro colpo per Aqim, diede il via a una serie di
dinamiche centripete che favorirono l’emergere di nuove divisioni. Nell’agosto
2013 vide la luce al-Murabitun, nata dalla fusione del Mujao con gli uomini di
Mokhtar Belmoktar (altro ex esponente di punta di Aqim). Pochi mesi dopo, la
rottura tra al-Qaida e l’auto-proclamato Stato islamico (Is) inflisse un altro
schiaffo alle velleità di Aqim. Proprio nell’alveo di tale frattura, infatti,
emerse nel 2014 Jund al-Khilafah, che a novembre venne formalmente accolta
all’interno di Is.
Aqim, ovviamente, non è rimasta a guardare
e ha sfruttato la crisi che ha colpito Libia e Tunisia per rafforzare le
proprie relazioni con altre realtà come le sezioni nordafricane di Ansar
al-Sharia e Okba Ibn Nafaa, un movimento attivo nella regione tunisina del
Jebel Chaambi responsabile di numerosi attacchi contro le forze di sicurezza.
Al netto di tali iniziative, però, il movimento sembra una pallida ombra di
quello forza che avrebbe dovuto dominare la regione sahelo-maghrebina, lacerato
al suo interno e sfidato da competitor
esterni che ne minacciano non solo la supremazia regionale ma la
stessa ragion d’essere.
Bangladesh, la nuova frontiera del jihad
di Giovanni Giacalone
Il Bangladesh può essere definito ‘nuova
frontiera del jihad’
in considerazione del fatto che prima dell’avvento dell’Is in Medio Oriente il
paese asiatico era sempre apparso di scarso interesse per il jihadismo
internazionale, seppur la presenza di organizzazioni islamiste radicali in loco
fosse nota da anni, tanto che nel 2009 il governo di Dacca aveva rilasciato una
lista che includeva dodici gruppi islamisti ritenuti particolarmente
pericolosi, ma senza alcun legame strutturale con organizzazioni jihadiste
internazionali, ad eccezione di Hizb ut-Tahrir, che dispone di un ramo anche in
Bangladesh.
Con l’insediamento dell’Is in Medio Oriente
e a causa della sua crescente egemonia sul panorama jihadista internazionale è
nata una forte ‘concorrenza’ con al-Qaida, sia a livello militare che in ambito
propagandistico-comunicativo, dove tutti i paesi islamici sono diventati di
importanza vitale; considerato che in Siria e Iraq gli uomini del califfato
sembrano avere la meglio, i qaedisti hanno puntato sull’Asia orientale e in
particolare sul Bangladesh, paese con 255 milioni di fedeli musulmani, circa il
90% della popolazione.
Nel gennaio 2014 il leader di al-Qaida,
Ayman al-Zawahiri, aveva fatto diffondere un audio dal titolo ‘Bangladesh:
massacro dietro un muro di silenzio’, dove incitava i musulmani a scontrarsi
contro le ‘forze anti-islamiche’ accusandole di massacrare i fedeli e puntando
il dito contro India e Occidente.
La tempistica non è casuale: il 12 dicembre
2013 era infatti stato giustiziato Molla Abdel Qader, leader della Bangladeshi
Jamaat e-Islami, inizialmente condannato all’ergastolo dal Bangladeshi
International Crimes Tribunal (ICT) con l’accusa di crimini di guerra, tra cui
l’uccisione di 344 civili, durante la guerra d’indipendenza del 1971. La
revisione della sentenza da parte della Corte suprema è stata una diretta
conseguenza delle proteste di Shahbag del febbraio 2013, quando migliaia di
persone si riversarono nelle strade per chiedere la condanna a morte al
‘traditore della patria’ Molla Abdul Qader e la messa al bando della Jamaat
e-Islami.
Tale organizzazione, fondata nel 1941, è
stata accusata in più occasioni di aver messo in atto crimini di guerra contro
civili bengalesi e i suoi membri di aver fatto parte di gruppi paramilitari
pakistani. La Jamaat ha anche un suo ‘braccio’ studentesco, l’Islami Chhatra
Shibir.
Questo episodio ha ulteriormente esasperato
lo scontro già in atto tra le forze di governo della Awami League, partito di
ispirazione nazionalista, secolare e socialista e gli estremisti islamici che
accusano il governo di ‘miscredenza’ nonché di essere manovrato dall’India.
Vale la pena rammentare che il Bangladesh, seppur riconosce l’islam come
religione nazionale, ha reintrodotto nel 2010 il laicismo come uno dei pilastri
della propria Costituzione, già incluso nel 1972 ma rimosso nel 1977 da Ziaur
Rahman.
Ayman al-Zawahiri ha dunque saputo ben strumentalizzare
la delicata situazione interna del paese, fomentando gruppi jihadisti locali
come Harkat-ul Jihad Islami (HJI), Jamaat-ul Mujahideen Bangladesh e Ansarullah
Bangla. Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’audio, la polizia locale
arrestava il ventunenne Rasel Bin Sattar Khan, accusato non solo di gestire una
pagina Facebook dove si incita al jihad,
ma anche di avere contatti sia con al-Qaida che con la Jamaat e-Islami.
Per quanto riguarda i gruppi jihadisti
autoctoni, attualmente ne risultano attivi una ventina (di cui dodici già
presenti nella lista emessa dalle autorità bengalesi nel 2009 precedentemente
citata). Tra i più noti vale la pena citare Harkat-ul-Jihad-al-Islami, di
ideologia qaedista, formata nel 1992 da veterani della guerra afghana
anti-sovietica e presente sia in Bangladesh che in Pakistan e India. Altro
gruppo jihadista particolarmente attivo è Ansarullah Bangla Team,
tradizionalmente nato come gruppo seguace dell’ideologia qaedista di Anwar
al-Awlaki e resosi responsabile di minacce e agguati nei confronti di diversi
blogger e liberi pensatori. Ansarullah ha inoltre pubblicato una lista con 82
persone condannate a morte dagli islamisti per essere fuoriusciti dalla ‘retta
via’; tra di loro c’è anche la scrittrice Taslima Nasreen, attualmente
rifugiata in India e sotto scorta.
Il 2015 è stato un anno drammatico per
quanto riguarda le aggressioni nei confronti di intellettuali non allineati con
l’ideologia jihadista: ben quattro blogger sono caduti sotto i colpi degli
estremisti, tra cui Avijit Roy e Washiqur Rahman. Sabato 31 ottobre Faisal
Abedin Deepan, un editore di libri non religiosi, è stato ucciso a colpi di
ascia a Dacca, mentre un altro editore è stato accoltellato nella sede della
sua casa editrice insieme a due scrittori. La ferocia jihadista non ha
risparmiato neanche gli stranieri e sotto i loro colpi sono caduti anche il
giapponese Hoshi Kunia e l’italiano Cesare Tavella.
Nonostante gli omicidi dei due stranieri
siano stati rivendicati dall’Is i dubbi restano poiché attualmente è ancora
l’ideologia di al-Qaida a dominare nella confusa galassia del Bangladesh.
Bisogna inoltre tener presente che con Is si intende un brand più che
un’organizzazione gerarchicamente strutturata come al-Qaida. Non è dunque da
escludere che la rivendicazione dell’Is per l’assassinio di Tavella possa
essere un tentativo dell’Is di affermarsi nel paese, magari cercando il
consenso di qualche gruppo jihadista autoctono disposto a confluire verso la
sua area ideologica.
Jihad e sud-est asiatico
di Matteo
Vergani
I paesi insulari del sud-est asiatico sono
un’area in cui l’islam è presente sin dal XIII secolo con una concentrazione
maggiore in paesi come Indonesia e Malesia. Minoranze consistenti si trovano
anche nelle Filippine e Tailandia e popolazioni più esigue negli altri paesi
dell’area. Tradizionalmente i conflitti indipendentisti dei paesi del sud-est
asiatico hanno avuto una matrice prevalentemente nazionalista, sebbene l’islam
sia sempre stato un elemento importante delle identità locali, con spinte più o
meno integraliste e puritane in diversi periodi e contesti storici. È a partire
dalla fine degli anni Novanta che il jihadismo, cioè una interpretazione
selettiva e letterale di testi religiosi islamici per giustificare la lotta armata,
si è lentamente ritagliato uno spazio importante nel sud-est asiatico, in
particolare in tre paesi: Indonesia, Filippine e Tailandia.
Per quanto riguarda l’Indonesia, il
jihadismo affonda le sue radici nel periodo dell’invasione sovietica
dell’Afghanistan degli anni Ottanta e nella mobilitazione jihadista che ne
seguì (e che vide il consolidamento di al-Qaida a livello globale). In quegli
anni un gruppo della galassia jihadista indonesiana, Jemaah Islamiyah
(conosciuto anche come Ji), si legò particolarmente all’organizzazione di Osama
bin Laden. Quando quest’ultimo decise alla fine degli anni Novanta di attaccare
obiettivi militari e civili occidentali, una fazione di Ji appoggiò la sua
causa conducendo attentati contro cristiani indonesiani e turisti occidentali,
tra cui i famosi attentati del 2002 in una discoteca di Bali in cui rimasero
uccise 202 persone, ed altri attacchi contro ambasciate e hotel di lusso.
Per quanto riguarda le Filippine, il
jihadismo si colloca nel contesto di un conflitto separatista in cui la regione
a sud del paese, a maggioranza musulmana, cerca di rendersi indipendente dal
governo centrale di Manila. I principali gruppi indipendentisti (in particolare
il Mnlf, Moro National Liberation Front, e il Milf, Moro Islamic Liberation
Front), pur essendo guidati da leader musulmani, non hanno fatto della lotta
indipendentista una questione puramente religiosa, ma economica e politica, e
non si riconoscono nell’ideologia jihadista. Tuttavia a partire dagli anni
Novanta sono apparsi nel conflitto diversi gruppi di matrice jihadista, tra cui
il più celebre è l’Asg (Abu Sayyaf Group). Inizialmente vicino ad al-Qaida, in
seguito alla repressione dello stato e al mancato supporto popolare l’Asg si è
indebolito e frammentato allentando i legami con al-Qaida e perdendo le radici
ideologiche, dedicandosi ad attività lucrative come estorsioni e rapimenti.
Anche in Tailandia il jihadismo si colloca
nel contesto di un conflitto indipendentista in cui le provincie del sud, di
religione musulmana e di etnia malese, cercano autonomia dal governo centrale
di Bangkok. Dopo un conflitto a carattere nazionalista per gran parte del
secolo scorso, e dopo circa venti anni di calma apparente, a partire dal 2004 è
tornata la violenza nella regione, assumendo una connotazione più religiosa e
più incontrollata. Infatti le principali organizzazioni che hanno guidato la
lotta indipendentista nel secolo scorso, in particolare il Pulo (Pattani United
Liberation Organization) e il Brn (National Revolutionary Front), non sono in
grado di controllare le esplosioni di violenza che sembrano ispirarsi a
versioni piu estreme dell’islam ma che non appartengono a gruppi organizzati.
Gli echi delle ‘primavere arabe’ e i
successivi conflitti in Medio Oriente da cui è emerso l’Is hanno avuto un forte
impatto sul jihadismo nel sud-est asiatico. A partire dal 2012 il conflitto in
Siria e l’avvento dello Stato islamico hanno ravvivato i fervori jihadisti in
Indonesia, che ha avuto il suo primo attentatore suicida in Siria nel 2013. Nel
2014 la propaganda dello Stato islamico ha rilasciato messaggi e video in
indonesiano, volti a reclutare combattenti dal paese, ed è stata dichiarata la
nascita di un gruppo jihadista indonesiano e malese operante nel sud-est
asiatico. Le stime vedono circa 500 indonesiani coinvolti tra il 2014 e il 2015
nel conflitto in Siria. Meno strutturati i rapporti dello Stato islamico con il
jihadismo nelle Filippine e Tailandia: Abu Sayyaf ha dichiarato nel 2014
fedeltà allo Stato Islamico, anche se l’organizzazione di al-Baghdadi non ha
mai risposto ufficialmente. Inoltre, nonostante la presenza su internet di
simboli dello Stato islamico associati all’insorgenza nel sud della Tailandia,
non ci sono prove di supporto o relazioni consolidate con la guerriglia separatista
nel sud della Tailandia.
In conclusione, il conflitto in Medio
Oriente può rivelarsi un nuovo pericoloso combustibile per il jihadismo nel
sud-est asiatico. Sebbene sembra improbabile che i gruppi jihadisti conquistino
ampio supporto popolare, questi possono costituire una minaccia per la futura
sicurezza della regione.
Egira: migrazioni, foreign figther e coloni
Dabiq, il magazine in lingua inglese
distribui;to da Is, esce a marzo 2015 con il suo ottavo numero intitolato The Call Hijrah. Si
tratta di una chiamata alla migrazione, denso degli usuali riferimenti alla
dottrina islamica, per spingere i musulmani che si riconoscono nella proposta
dello Stato islamico a confluire nelle sue schiere: si tratta della
esplicitazione di una delle strategie di penetrazione di Is dalle molteplici
conseguenze e sfaccettature. Infatti, essa comprende, in genere, sia l’egira,
intesa come migrazione verso lo Stato islamico, sia il jihad nei paesi
d’origine. Emblematica, proprio per entrambi questi significati, la chiamata
rivolta ai Balcani, terra di espansione importante per il califfato: il 5
maggio 2015 Is ha rilasciato, tramite la sua principale casa di produzione, la
al-Hayat Media Center, un nuovo video specificatamente orientato a quelle
popolazioni, con particolare attenzione alla Bosnia-Erzegovina, dal titolo: Honor is in Jihad. A Message to the
People of the Balkans. L’obiettivo era chiaro: scuotere i musulmani
dei Balcani e spingerli a unirsi a Is o a combattere per Is a casa loro, con
tutti i mezzi. Il ‘progetto migratorio’ di Is è articolato: in una prima fase
prevedeva soprattutto il reclutamento dei foreign
figther, intesi come combattenti pronti a morire sul campo o a
tornare per perpetrare attacchi nei paesi di provenienza. Ma in una fase successiva,
più recente, ha incentivato il reclutamento di ‘combattenti’ in qualità di
tecnici ed esperti, il cui lavoro fosse nelle retrovie, per organizzare la
comunicazione, la logistica e i servizi dello stato. Insieme a loro ha
cominciato ad attrarre donne, spesso da dare in sposa ai combattenti,
perseguendo un piano di colonizzazione delle terre, insediando una popolazione
omogenea per condivisione della visione islamista radicale ma multietnica per
appartenenza. Proprio in quest’ultima fase, nel contesto della guerra ibrida,
Is ha iniziato a sfruttare i grandi flussi migratori generati dalla pulizia
etnica perseguita nelle terre occupate e, più generalmente, dalla situazione di
conflitto. Tali flussi sono funzionali a indebolire (soprattutto) l’Europa favorendone
la frammentazione e i paesi mediorientali sottoposti a una pressione migratoria
ormai quasi insostenibile; a raccogliere denari per mezzo del traffico di
persone; a sfruttare i percorsi dei flussi per fare penetrare eventuali
combattenti di ritorno; sfruttare i migranti sia in termini di reclutamento
(raro) sia in termini di sottrazione di identità (uso di sim e documenti).
Le relazioni con la criminalità
organizzata
Da tempo esiste una confermata relazione
tra criminalità organizzata e terrorismo: si tratta di un legame di reciproco
sfruttamento di modalità operative differenti che convergono nell’interesse di
‘fare business’. L’intera regione Mena (Middle East and North Africa) mostra
una convergenza dei network,
soprattutto l’area nordafricana, che rende facile e utile lo scambio tra
criminalità organizzata e terrorismo. Il caso libico è emblematico: sul terreno
si incrociano traffici di armi, di droga, di migranti clandestini e di beni.
L’intreccio è funzionale in numerose forme: per esempio i gruppi terroristici
fungono da service
provider garantendo logistica e sicurezza, indipendentemente dai
materiali trasportati; oppure i migranti sono utilizzati come vettori di droga,
e via di seguito. Un esempio evidente è la presenza dell’organizzazione in
alcune aree di Mauritania e Mali, dove fornisce supporto logistico al
narcotraffico proveniente dall’America Latina attraverso l’utilizzo di piste di
atterraggio improvvisate nel deserto. I convogli che scaricano e trasportano il
carico verso le coste del Nord Africa vengono poi scortati dagli stessi
jihadisti. Le fonti di intelligence stimano in circa ventimila i miliziani
combattenti, non necessariamente di IS, coinvolti direttamente nei traffici
oltre a una presenza importante dei gruppi tuareg e tebu, etnie seminomadiche
che da sempre controllano i commerci illegali transconfinari. Si tratta
pertanto di uno scambio reciprocamente funzionale a organizzazioni sempre più
integrate e dai confini organizzativi sfumati soprattutto in Nord Africa. Ciò
che è interessante è la conferma che questo scambio avvenga su basi strategiche
e che Is sia consapevole: si stima che in settembre, attraverso i percorsi
delle migrazioni illegali tra i 100 e i 200 Boko Haram si siano già trasferiti a
combattere per Is in Libia.
Di questa consapevolezza strategica è lo
stesso califfato a informarci con l’articolo di John Cantlie, reporter inglese
ostaggio di Is, comparso su Dabiq (numero 9, 23 maggio 2015: 74-77) intitolato The Perfect Storm, dove
si minaccia un attacco con materiale radiologico negli Stati Uniti, un attacco
che lo stesso autore definisce parte di uno scenario inverosimile. Quello che è
più interessante è la dichiarazione consapevole della perfetta integrazione di
Is con i circuiti della criminalità: Is utilizza il denaro per corrompere e
acquistare il nucleare in Pakistan; con la rete di mujaheddin si trasporta la
merce in Libia, in Nigeria e poi in Africa occidentale; qui attraverso la rete
della droga in Colombia via mare; poi verso nord attraverso i canali
dell’immigrazione clandestina fino in Usa. Dunque la rete e il rapporto tra
criminalità e terrorismo è consolidato ed è uno strumento importante di
penetrazione, stabilizzazione e arricchimento per Is.
Il sistema di alleanze
Fin dalla sua proclamazione il califfato ha
cercato di promuovere un sistema di alleanze chiedendo ai gruppi jihadisti
della tradizionale organizzazione in franchising
di al-Qaida di prestare giuramento ad al Baghdadi, riconoscendolo come autorità
suprema. I risultati sono stati altalenanti, sia per l’attitudine consolidata
in ogni gruppo locale a cogliere opportunità ma mantenendo un buon grado di
autonomia, sia per lo scontro che ha caratterizzato le relazioni tra Is e
al-Qaida (specialmente nella componente siriana di al-Nusra) verso aprile 2015.
Ma nel corso dell’anno
l’obiettivo è stato perseguito con cura, anche con il supporto di una sorta di
diplomazia del califfato che ha portato emissari dello Stato islamico a
visitare le diverse fazioni per negoziare le modalità dell’alleanza. Il
risultato è una galassia composita di attori che, seppure con intensità
differente, riconoscono l’autorità del califfato e, pertanto, supportano la
penetrazione di Is nei territori che controllano, ne applicano strategie e
regole, tendono a replicare il modello organizzativo: veri attori della
‘espansione coloniale’ del jihadismo.
Per saperne di più
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W.
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del Terrorismo, Rizzoli, 1978
Vocabolario
jihadismo
‹ǧiha-›
s. m. [der. di jihād]. – Il movimento
fondamentalista islamico, nei suoi varî raggruppamenti, il
cui principale obiettivo è quello di sostenere la «guerra santa»
contro gli infedeli, senza escludere il ricorso ad attentati e azioni
terroristiche.
jihadista
‹ǧiha-›
agg. e s. m. e f. [der. di jihād] (pl. m. -i). –
1. agg. Che si riferisce alla «guerra santa»
dei fondamentalisti islamici contro gli infedeli: propaganda jihadista,
attentato jihadista. 2. s. m. e f. Sostenitore, fautore
della jihad...
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